
Provando a pensare alle rivoluzioni che hanno caratterizzato il nostro mondo, dalle guerre a internet, viene naturale chiedersi dove si colloca l’uomo, ovvero quale ruolo ricopre l’individuo nella storia, se e come la sua azione influisce sugli eventi e viceversa.
La “Critica della ragione dialettica”, scritta nel 1960 da Jean Paul Sartre, cerca di rispondere alla domanda. In 800 pagine vengono studiati i rapporti tra dialettica (l’arte del dialogare usata come strumento che indaga la verità) e ragione, tra esistenzialismo e marxismo. Con esistenzialismo intendiamo quel complesso di indirizzi filosofici contemporanei che affermano il primato dell’esistenza sull’essenza, cioè su ciò che c’è al di sopra di ciò che è, e hanno per oggetto l’analisi dell’esistenza stessa intesa come categoria comprensiva di tutte le cose che sono al mondo. Mentre con marxismo indichiamo una teoria politica e sociale basata sul pensiero attribuito a Karl Marx, filosofo tedesco del XIX secolo, è fondamento del materialismo storico e del comunismo. Nato come conseguenza dello stretto rapporto a cui assiste il decennio tra i due pensieri filosofici, in cui il singolo si riappropria del ruolo centrale (antropocentrismo), lo scritto di Sartre ebbe risonanza anche in Italia. Si creò infatti un ponte tra Parigi e Milano, che vedeva come maggior rappresentate dell’esistenzialismo Enzo Paci.
Nel 1985 uscì anche il secondo tomo della “Critica della ragion dialettica”, senza suscitare grande clamore. Questa volta il Sartre emerso è un individuo ormai discostato dall’esistenzialismo, la cui influenza sulla letteratura francese e sulle ideologie intellettuali diminuisce poco a poco specialmente nel confronto con lo strutturalismo in voga all’epoca, corrente filosofica che, al contrario di Sartre, non lascia spazio alla libertà individuale essendo ogni uomo imbrigliato nelle strutture che lo sovrastano e sulle quali non ha presa. Inoltre dopo gli anni ‘60 la sua salute peggiorò rapidamente. Sartre era prematuramente logorato per la sua costante iperattività letteraria e politica. Ma proprio perché il filosofo si è un po’ allontanato dal progetto e pensiero iniziale possiamo focalizzare la nostra attenzione su questo secondo tomo.
“In che senso ognuno di noi è un individuo storico?”. È questa la domanda fondamentale presente nel secondo volume dell’ultima opera del filosofo francese, ed è questa da cui conviene partire per una più approfondita analisi dell’ultimo Sartre.
È fondamentale comprendere che “nell’esperienza singola sta tutta la storia”, suggerito dal fatto che alla base dell’opera ci sia la riflessione sull’individualità, accompagnata dalle domande sull’essere, che riguardano il singolo nella sua interiorità. Sartre, difatti, vuole comprendere le passioni, i sentimenti e il pensiero dei grandi personaggi che hanno segnato profondamente la storia dell’intera umanità. “Tra lo scherzoso e il serio, mi sono affacciato alla finestra e ho visto passare lo spirito del mondo a cavallo”. Dalle parole di un giovane Hegel (1810, Jena) possiamo carpire il chiaro riferimento a Napoleone Bonaparte. Sartre si pone dunque il presupposto di comprendere i moti interiori di codesti titani, i quali sono certamente semplici esseri umani, ma caratterizzati da un tale temperamento che permette loro di essere “spirito del mondo”.
Ogni prodotto dell’azione umana torna indietro e ci modifica, poiché alla base vi è una concezione a spirale della società. E con questa idea Sartre definisce il modo in cui soggetto e storia comunicano. L’oggettivazione del soggetto è inevitabile, dato che “ogni individuo che produce viene prodotto da ciò che produce”. L’oggettivazione intende riferirsi a quel processo attraverso il quale qualsiasi cosa appare come oggetto, e in questo caso fa riferimento al lavoro, essendo un’attività umana che produce qualcosa e si oggettiva nel suo prodotto.
Dunque alla base dell’agire dell’uomo e del pensiero nell’ultimo Sartre vi è la Prassi: vista come lavoro di integrazione e modificazione in vista di un fine. Il fine ultimo, lo scopo del progetto, è la conservazione della vita, ad opporsi alla sua realizzazione vi è la raritè (penuria) di mezzi per la sopravvivenza. Le possibili conseguenze di ciò saranno due: la prima vede l’integrazione dell’individuo in ciò che lo circonda, al ciclo della vita, permettendo la continuazione della specie. La seconda vuole invece la rottura del ciclo, dovuta alla mancata o interrotta integrazione dell’individuo, con conseguente termine della vita. Dunque per poter raggiungere l’obiettivo finale, l’essere umano deve usare la sua fisicità, in modo da agire sull’inerzia che lo circonda. In parole povere: il contadino deve creare la zappa, per poter zappare. E così, dal momento in cui nasce la vita, viene usato il corpo (la fisicità) per l’adempimento del fine ultimo (la conservazione). Nonostante ciò, Sartre, probabilmente, non è andato fino in fondo al concetto della prassi, poiché è rimasto legato al biologismo e all’umanesimo. Infatti il filosofo crede in una prassi totalizzatrice, la quale libera l’uomo dal ciclo organico della vita, ma nello stesso tempo lo fa rientrare in un circolo di schiavitù, costituito dal lavoro o dalla prassi. Chiarito che questo secondo tomo è dominato dai concetti di prassi e individuo storico, il tema che rimane aperto, e non portato a una soddisfacente conclusione, è il rapporto tra la prima nozione, quella di prassi, e la vita. Il presupposto indispensabile a tale intento è un progetto e la prassi diventa proprio l’attuarsi di questo progetto.
Il motivo per cui si sotiene che Sartre ha lasciato in sospeso tale questione si ritrova nella mancata risposta alla domanda: “L’uomo diventa una cosa?”. Come si arriva a questa domanda? Semplicemente si parte dalla constatazione che l’uomo non può uscire dal cerchio di biologismo, perché comporterebbe l’irreversibilità della prassi, ma con la prassi comune si produce la retroazione, ovvero l’effetto, il quale impedirebbe la chiusura del cerchio e dunque il ritorno al biologico. Inoltre il ciclo interrotto non potrà ripristinarsi, poiché il lavoro provoca l’oggettivazione . E dunque la materia lavora l’uomo in proporzione al lavoro che compie. Da qui la domanda a cui Sartre non riesce a dare una risposta.
Il secondo tomo della “Critica alla ragion dialettica” rimane quindi interrotto, probabilmente a causa dell’accorgersi da parte di Sartre dell’impossibilità di raggiungere il suo obiettivo attraverso la filosofia. La soluzione che si prospetta per il filosofo diventa pertanto la realizzazione di una biografia, Flaubert ne diventa così il protagonista ne “L’idiota della famiglia”. Così, con questo nuovo progetto, il grande pensatore parigino vuole descrivere l’intera società: “Prendere un individuo per spiegare un mondo, prendere il mondo per spiegare un individuo” .
“Critica della ragion pratica”, ultima opera del grande filosofo francese Jean Paul Sartre, cominciata negli anni dell’esistenzialismo, della guerra in Algeria e interrotta bruscamente poco prima della sua morte. Opera ricca di significato antropocentrico, nel secondo tomo riflette sul concetto di prassi e oggettivazione, “non concludendosi” con una domanda che rimane senza risposta.